Giovedì 18 Aprile 2024 - Anno XXII

Media Gallery

Media Gallery

La Creazione (Genesi)

di
a cura della Redazione

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto". E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie". E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. Dio disse: "Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie". E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.

Media Gallery

Francia. Troyes la città delle bollicine

di
Dario Bragaglia testo e foto

A guardarlo sulla carta il profilo del cuore antico di Troyes, attorno alla splendida cattedrale di San Pietro e Paolo ...

Media Gallery

Le “riduzioni” gesuitiche boliviane

di
Manuela Cuadrado

Lontana dalle cime delle Ande, si estende la Bolivia della Selva. Qui strade polverose portano fin dentro il "cuore verde" del Paese: la Provincia di Santa Cruz de la Sierra. Nel Seicento, assieme ai territori dell'odierno Paraguay, formava la Provincia di "Paraguaria". La zona era un passaggio obbligato per le carovane provenienti dal Perù e da Potosì, ma gli assalti degli indios chiriguanos resero necessaria la ricerca di nuovi sentieri e di nuove strategie per rapportarsi con i nativi. Il viceré spagnolo decide di puntare più sul Vangelo che sulla spada: nel 1691, padre Arce è il primo missionario gesuita a solcare la rossa terra di Bolivia. Rimane conquistato dalla bellezza selvaggia di questi territori. Cieli immensi, solcati dal volo dei pappagalli; magnifiche orchidee a cui basta la carezza del vento per vivere. In simbiosi con questa natura rigogliosa vivono uomini di stirpe Tupi-Guaranì, soprannominati "Chiquitos" ("piccolini"). Ad essere piccole, in realtà, sono solo le entrate delle loro capanne: uno stratagemma per scoraggiare i giaguari. Conducono una vita dura, esposta alle malattie e al continuo pericolo. Ispirato dall'ideale evangelico della "Terra senza Male", Padre Arce fonda qui la sua prima missione. Un luogo in cui i nativi potevano ricevere assistenza medica e spirituale, ma a condizione che abbandonassero le loro capanne disperse nella selva per radunarsi (o "ridursi", nello spagnolo dell'epoca) e formare una comunità. Nascono così le "riduzioni" gesuitiche della Chiquitanía. Qui si abbina l'evangelizzazione all'insegnamento dell'agricoltura, dell'artigianato e della musica, per cui i nativi dimostrano un talento eccezionale. La comunità era retta dal "cabildo", il consiglio dei notabili indigeni, in cui il sacerdote rivestiva il ruolo di consigliere. Ma c'è qualcosa che manca: per agevolare le conversioni, la chiesa dev'essere specchio della magnificenza del paradiso. Detto e fatto. Nel 1730, giunge in Chiquitanía il gesuita e architetto svizzero Schmidt. Nel giro di pochi anni, all'interno della selva spuntano chiesette candide riccamente decorate con motivi vegetali in cui ricorre il fiore di "mburucujà", simbolo di Cristo. La forma ricorda curiosamente gli chalet alpini della patria lontana. Dopo San Javier sorgono San Rafael, Concepción, San Ignacio, San Miguel, Santa Ana... le riduzioni crescono. E si arricchiscono. Guadagnano speciali privilegi dal re di Spagna, tra cui la libertà di armarsi per difendersi dalle incursioni dei trafficanti di schiavi. Cominciano a far paura agli stessi poteri che hanno contribuito alla loro nascita e che ora vedono il fenomeno sfuggire loro di mano. Nel 1777, il sogno della "Terra senza Male" s'infrange: il Papa ordina lo scioglimento dell'ordine gesuita. I missionari della Chiquitanía devono tornare a casa. Seguono secoli di abbandono. Le riduzioni vengono fagocitate dalla selva. Finché, nel 1972, un altro gesuita diventa il protagonista della loro rinascita. Si chiama Hans Roth, anche lui svizzero e architetto. Il lavoro di restauro ha riportato questi gioielli architettonici al loro splendore e oggi sono parte del patrimonio Unesco. Le chiese sono ancora il centro della vita dei villaggi, che é rimasta in buona parte immutata, anche se le motociclette di fabbricazione cinese hanno sostituito i muli. L'accoglienza alberghiera è impeccabile, con tanto di internet e piscina. Ma nelle locande si serve ancora brodo di gallina e coccodrillo arrosto.

Media Gallery

Rifugiati Tibetani in Ladakh

di
a cura della Redazione

Novembre 2007, Ladakh, estremo nord dell’India. Lo sguardo del giovane “Khampa” è rivolto oltre le vette innevate e i ghiacciai dell’Hymalaya. Verso quella casa che non ha mai conosciuto.
Lhasa è pura utopia per questi rifugiati tibetani, nomadi sulle montagne del Ladakh, India settentrionale. Alcuni di loro, nati e cresciuti in esilio, non hanno mai messo piede in Tibet, oltre quelle creste rocciose.
Sono da diversi giorni loro ospite a Poga Sumdo, un piccolo villaggio a 4500 metri d’altitudine, sulla pista che conduce verso il lago Tso Moriri, a una giornata di fuoristrada da Leh, il capoluogo della regione.
Vivo con questa gente, ospite nelle loro case e divido con loro una quotidianità semplice, fatta di lavoro e di dura sopravvivenza. Ma anche di momenti di grande intimità religiosa, come l’ora della “puja” favorisce.
La preghiera buddhista raccoglie tutti, uomini, donne e bambini, avvolti nelle pelli di capra, nell’unica stanza grande del villaggio, appena intiepidita dagli ultimi raggi del sole. “Om, Mani, Padme, Hum”, recita il “fiore di loto”, la preghiera che ringrazia Buddha per la sua infinita saggezza.
Nel piccolo villaggio di Poga Sumdo, incontro il medico tibetano Dhondup, che una volta al mese, percorrendo le difficili piste d’altura, da Leh raggiunge gli accampamenti nomadi dei Khampa, un’etnia che vive in tenda sulle montagne situate oltre i 5500 metri d’altezza. Chiedo di poterlo accompagnare.
Dhondup porta soccorso e cure, visita chi ne ha bisogno e dona medicine e vaccinazioni. Questa volta la sua missione è di vaccinare i bambini.
Il medico cerca anche di infondere sentimenti di speranza a questo popolo di rifugiati ai quali, dopo l’invasione cinese del Tibet, è proibito tornare nel loro paese.
La vita di questa gente è durissima, in presenza di un clima impossibile, con temperature che in questa stagione (novembre) raggiungono i trenta gradi sotto zero.

Media Gallery

Il Messico e la sua gente

di
a cura della Redazione

"Messico, con il suo nopal e il suo serpente (...) fiorito e spinoso, secco e solcato dagli uragani, violento di eruzioni e di colori (...) l'ultimo paese magico; magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia" così lo ha definito il poeta cileno Pablo Neruda.
Messico, paese di silenzi e di voci, di natura assoluta e di civiltà, dove ognuno di noi può cercare, e trovare, tra le tante voci la sua, voci che a ogni viaggio possono sembrare differenti, come i nostri stati d'animo. Voci che si possono incontrare all'ombra delle massicce chiese costruite dai domenicani a San Cristobal de las Casas in Chiapas dove, dopo la fine dell'insurrezione zapatista, le tessitrici maya hanno ripreso a raccontare le antiche leggende sui loro huipiles, i vestiti multicolori. Dei, serpenti, rane, scorpioni, farfalle, antenati, l'onnipresente sole, racchiudono una vera e propria Bibbia scritta sulla stoffa.
Un mondo muto per chi non sa ascoltare, ma ancora capace di parlare ai suoi fedeli nel folto delle foreste, tra le montagne accidentate scavate da gole e dirupi dove il "Signore della terra", padrone delle nuvole e della pioggia, fa risuonare il rombo delle grandi cascate di Agua Azul.
C' è il silenzio, pieno di voci, delle foreste di pietra dello Yucatàn, come a Uxmal dove l'archeologo americano Stephens, 150 anni fa, dall'alto della Piramide dell'Indovino si è trovato davanti palazzi e piramidi "grandiose e ben conservate, con un effetto pittoresco, simile a quello prodotto dalle rovine di Tebe sul Nilo".
Basta ascoltare e lasciarsi sorprendere, perché il Messico colpisce quando meno te lo aspetti, nell’immenso caleidoscopio del Monstruo, Città del Messico, un incubo ecologico capace di provocare l'irresistibile desiderio di fuggire, ma anche una città d'una bellezza travolgente. O nel silenzio, pieno di voci, delle città maya che si alzano come astronavi di pietra sopra la nebbiolina che invade la selva, ultima testimonianza di una civiltà ormai morente, quella degli antichi libri del Chilam Balàm che avevano preannunziato: "Loro verranno. I saggi verranno uccisi, i templi distrutti, e tutto sarà peccato".
Loro, i conquistadores, sono arrivati portando una tempesta di ferro e di fuoco e creando, inconsapevolmente, un’irripetibile contaminazione tra mondi apparentemente inconciliabili. Da allora la capacità del Messico di assorbire e rielaborare non ha più smesso di produrre intriganti sincretismi, religiosi, artistici, politici e culturali. Forse perché era l’unica possibilità di sopravvivenza per un paese “così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”, come sospirava nei suoi ultimi anni di potere il vecchio dittatore Porfirio Diaz.
E così solo nel Secolo Breve appena trascorso il Messico ha prodotto la prima grande Rivoluzione moderna, archetipo dei sogni di emancipazione sociale di tutto un continente. Ha prodotto l’esplosione artistica dei murales, opera di artisti convinti di portare i musei nelle strade delle città, ma ha prodotto anche telenovelas sfornate con ritmi giapponesi, piene di maliarde encantadoras che inchiodano davanti ai teleschermi milioni di telespettatori.
Poi ha anche stupito il mondo con il subcomandante Marcos, icona di una “rivoluzione impossibile”, quella della prima ribellione contro una globalizzazione che esclude.
Così, persino con le sue dure contraddizioni sociali, il Messico continua a raccontare la creatività, la fede, le paure, le credenze, i colori, la gioia, con il "potere – come sosteneva Andrè Breton - di mantenere aperto un registro inesauribile di sensazioni, dalle più dolci alle più insidiose".

Media Gallery

Il corso dell’Adda per l’Ecomuseo di Leonardo

di
a cura della Redazione

L’idea un po’ bizzarra di fotografare il corso dell’Adda dalla mongolfiera la devo innanzitutto all’Ecomuseo Adda di Leonardo. Il direttivo dell’Ecomuseo mi chiese un’idea per una mostra fotografica in grado di divulgare le bellezze paesaggistiche e architettoniche che lo qualificano. Immediatamente pensai di proporre la prospettiva aerea, di far vedere il fiume dal cielo. Parlando del progetto di foto aeree dell’Adda con un amico questi mi riferì di conoscere un appassionato di volo in mongolfiera: Carlo Rovelli. Appena sento la parola “mongolfiera” mi si scatena subito l’immaginazione: “ma certo” - mi dico - “le foto aeree dell’Ecomuseo Adda di Leonardo non posso che farle con un mezzo di trasporto ecologico e un po’ retrò come la mongolfiera”. Un incontro con Carlo viene immediatamente organizzato e, dopo pochi giorni, siamo già in volo per la prima ricognizione fotografica.
La prima esperienza promette bene: per più di un’ora riusciamo e seguire il corso dell’Adda volando da Brivio fino a Cornate. I voli successivi si riveleranno meno fortunati: ci alzavamo da terra e, dopo aver varcato il corso del fiume, subito il vento ci portava a sorvolare capannoni, cantieri e zone industriali: non esattamente il tipo di soggetti che cercavo.
La mongolfiera infatti, ecco la prima cosa che si impara volando con essa, permette di decidere l’altezza a cui volare, ma non la direzione verso cui muoversi: per quella si è letteralmente in balia dei venti.
Questi successivi insuccessi ci hanno indotto a un cambiamento di strategia. Inizia il periodo dei sopralluoghi, dello studio dei venti alle varie ore del giorno. Per fare questo credo di essere passato 
per pazzo più di una volta. Cosa pensereste voi di uno strano personaggio che se ne arriva tutto affannato in un parcheggio, scende dalla macchina con una palloncino in mano e lo libera verso l’alto; rimane a guardarlo per dieci minuti buoni, annota qualcosa sul suo quadernetto e poi se ne riparte sgommando? Non viene certo da pensare che stia cercando il posto migliore da cui far partire una mongolfiera.
Il lavoro che viene presentato in questo calendario è ancora lontano dall’essere concluso: i sopralluoghi continuano. Se qualcuno dovesse vedermi lasciar andare un palloncino e guardarlo salire verso l’alto non mi prenda per pazzo, o almeno, ammetta che c’è del metodo in 
questa follia.
Aspettiamo tutti alla prima tappa della mostra itinerante che si terrà in occasione del I Premio Internazionale Mario Roveda, nel marzo del 2008. Nell’attesa vi auguriamo di godere delle vedute di questo calendario, sperando vi facciamo venir voglia di tornare al più presto a visitare i luoghi che vi sono rappresentati. Se poi voleste andarci in mongolfiera, chiedete a Carlo. Anche in bicicletta comunque ve li potrete godere benissimo.