Vita da “fazendero”
In barca peschiamo anche i piranhas, che costituiranno la nostra cena nella “fazenda”, un ranch in mezzo al nulla, raggiungibile solo dopo ore di jeep, quando, naturalmente, non è il periodo delle inondazioni stagionali.
Cavalcare nei dintorni della fazenda fa una strana impressione, sembra di tornare indietro nel tempo: tutt’intorno prateria a perdita d’occhio e, nel cortile, le donne che trasportano secchi colmi di porzioni di maiale o di pezzi di pesce che verranno messi a cuocere ore e ore su fuoco di legna in grossi pentoloni, per essere poi serviti insieme all’immancabile “arroz” (riso).
Il trattamento è spartano, si dorme in brandine, le lenzuola sono ruvide e le zanzariere bucate, e dalle nove di sera viene scollegato il generatore di elettricità. Ma la mancanza di comodità viene compensata da un’esperienza umana unica, per la presenza dei fazenderos, uomini duri, discendenti degli indios, che vivono al limite dell’isolamento pascolando le “boiadas” (mandrie); lavoro faticosissimo e, a quanto pare, mal retribuito.
Non è facile avere conversare con i pantaneiros, a causa della loro
diffidenza e dell’abitudine a stare in solitudine. I più giovani sono
anche i più curiosi. Chiedono come si vive in Europa, in Italia. Dicono
di volersene andare altrove per lavorare e per mettere su famiglia.
Ogni sera, dopo cena, finalmente un momento di relax: i fazenderos,
giovani e vecchi, si ritrovano per chiacchierare, la “cachaça” colma i
primi bicchieri, spunta una chitarra. La stanchezza di una dura
giornata al servizio della fazenda si dissolve nei canti tradizionali
del Pantanal, storie di solitudini e di privazioni, struggenti melodie
di amore e di odio per questa terra difficile ed estrema da cui è
impossibile, nel bene e nel male, non essere catturati.